Poltrona, 18 Novembre 2008
Solo qualche giorno fa un amico, per presentarmi ad altri, mi ha bollato come l'ultimo ottimista in grado di credere che ancora sia possibile sperare nel Partito Democratico. Sorte ha voluto che, pochi giorni dopo, l'affaire Villari scoppiasse in stridente dissonanza con il risollevarsi dell'orgoglio democratico innescato dall'elezione di Obama. Lo spettacolo imbarazzante di queste ore ci ha strappato da quella beatitudine a sprazzi ottusa regalandoci la fastidiosa sensazione di essere, non solo dall'altra parte dell'Oceano, ma, a conti fatti, su un altro pianeta, ed ha gettato tutti, me compreso, in un sordo scoramento. Le critiche sono piovute copiose, imbarazzate alcune, imbarazzanti tutte. A queste critiche ho sempre associato, in cuor mio, una doverosa premessa mai esplicitata. Le mie, fra queste, sono raramente ispirate dal partito che è, più spesso dettate dalla rabbia per la doverosa promessa, mancata, del partito che potrebbe essere. La differenza può essere cavillosa o pretestuosa, ma esiste. La differenza è marcata dal non intravedere alternative percorribili rispetto alla strada Veltroniana, densa di errori e deviazioni cervellotiche, ma unica possibile. La differenza è marcata dal vedere, al contempo, il deleterio sommarsi di occasioni mancate, capacità sottovalutate e competenze svilite. In questo contesto, in controtendenza con me stesso, ed a tratti anche con ciò che penso e che scrivo, ho deciso di tesserarmi al PD. Non tanto perché questo partito abbia bisogno di me, non se ne vederebbe il motivo se non la mia presunzione, ma perché io ho bisogno di questo partito, di quella doverosa promessa che, mancata, distruggerebbe tutte le mie doverose premesse.
[ripensandoci] di [il sesto]

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